Bio
Giovanni De Zorzi, flauto ney, direzione musicale
Stefano Albarello, liuto a manico lungo tanbûr
Giovanni Tufano, liuto a manico corto 'ûd
Fabio Tricomi, tamburo a calice zarb, tamburo a cornice def
con l'occasionale e preziosa partecipazione di Sepideh Raissadat, voce, liuto a manico lungo setâr
L'Ensemble Marâghî nasce nel 2008 all'altro capo della "Via della Seta", Venezia, probabilmente grazie alle risonanze sonore che ancora vagano tra le pietre della città.
Attualmente l'Ensemble segue due linee principali: una strumentale (sâzende) e una vocale (hânende). La prima propone un itinerario nella musica strumentale ottomana antica (secoli XV-XVIII) sviluppatasi tra la corte e i centri sufi di Costantinopoli.
La seconda, invece, si avvale della collaborazione con la cantante persiana Sepideh Raissadat e si dedica alle composizioni vocali di 'Abd ul-Qâdir Marâghî (m. 1435). Questa seconda linea di ricerca risplende nel loro recente CD Anwâr. From Samarqand to Constantinople on the Footsteps of Marâghî, Felmay, 2010, CD: FY 8172.
Per il suo nome il gruppo si ispira al grande musicista, compositore e musicologo 'Abd ul-Qâdir Marâghî, nato nella seconda metà del 1300 a Marâghe, nell'attuale Azerbaijân iraniano, e scomparso ad Herât, città dell'attuale Afghanistân, nel 1435. Come tutti gli artisti e gli intellettuali del suo tempo egli fu un cosmopolita: inizialmente attivo alla corte di Tabriz, presto egli venne portato a Samarcanda, dove lo volle il suo grande estimatore e mecenate, il potente Timûr (Tamerlano, 1336-1405). Dopo la scomparsa di Tamerlano egli visse ad Herât alla corte del suo figlio più giovane, Shâh Rukh (1377-1447). L'opera di Marâghî ebbe un'importanza decisiva per tutte le musiche classiche del mondo islamico: portato da figli e discepoli il suo insegnamento giunse sino a Baghdad e al Cairo ma, in particolare, la sua figura, mitica e mitizzata, ebbe un ruolo fondamentale per la nascita della tradizione classica ottomana: nel 1422, infatti, il suo trattato intitolato Maqâsid al-Alhân ("I significati delle Melodie") venne portato dal più giovane dei suoi figli, Abdülaziz, al sultano Murad II con una carovana che da Herât raggiunse Bursa, allora la sede della corte ottomana: ebbene, questo omaggio viene unanimemente percepito dalla tradizione ottomano-turca come l' "atto fondatore", l'inizio simbolico della propria musica classica.
Per l'Ensemble richiamarsi con il proprio nome a Marâghî significa andare alle fonti stesse della musica ottomana. E sono fonti interculturali, che vanno al di là degli odierni nazionalismi. La stessa tradizione musicale ottomana sembra l'esempio perfetto della multiculturalità dell'area e dei tempi: essa è la sintesi dell'eredità selgiuchide e bizantina che, dal XV secolo in poi viene fortemente influenzata dalle tradizioni persiano/arabe, timuridi, indiane, e in seguito balcaniche ed europee. Il mosaico composito delle genti che convivevano pacificamente sui territori dell'impero si rifletteva nei musicisti che operavano a corte, che potevano provenire dalle diverse comunità che lo formavano (greci, armeni, slavi, moldavi, arabi...) e confessare religioni diverse, sopratutte la cristiana o l'ebraica.
Continuando nella ricerca delle fonti della musica persiana e ottomana iniziata con le composizioni di Abd ul-Qâdir Marâghî, l'Ensemble Marâghî attualmente sta esplorando le composizioni dei "persiani" (acemler) documentate dal principe Dimitrie Cantemir (1673-1723) nel suo Kitâbu 'Ilmi'l-M ûsiki 'ala Vech' al-Hurufât ("Libro sulla scienza della musica secondo la notazione alfabetica"). Il trattato, composto presumibilmente a Costantinopoli tra il 1700 e il 1703, comprende una sezione teorica scritta in ottomano a qui fa seguito un'appendice contenente 351 brani strumentali (236 peşrev e 30 semâî) trascritti secondo il sistema di notazione alfabetica da lui inventato, detta dai turchi Kantemiroğlu notası, per esemplificare la parte teorica. Le composizioni da Cantemir attribuite agli acemler rappresentano, secondo gli stûdiosi, il nocciolo antico della musica ottomana/persiana.
Note biografiche
L'Ensemble è diretto da Giovanni De Zorzi (flauto ney), allo stesso tempo musicista e stûdioso: è, infatti, allievo del M.o Kûdsi Erguner e ha insegnato flauto ney al Conservatorio "Arrigo Pedrollo" di Vicenza; dal punto di vista accademico è dottore di ricerca in Etnomusicologia e, dal 2012, docente di questa materia all'Università "Ca' Foscari" di Venezia. Sin dalla nascita dell'Ensemble ne è parte attiva Giovanni Tufano (liuto a manico corto 'ûd), strumento che ha studiato con il libanese Ghazi Makhoul. Stefano Albarello (liuto a manico lungo tanbûr) sin dal 1985 si occupa di musica antica, approfondendone l'aspetto musicologico, la prassi del canto e degli strumenti a pizzico medioevali, rinascimentali, barocchi ed arabi. Opera da anni nel concertismo come solista e direttore di insiemi, tra i quali l'Ensemble Cantilena Antiqua. Il gruppo si regge sui cicli ritmici suonati dal percussionista Fabio Tricomi, che ha studiato tamburo a calice zarb (o tombak) con Jâmshîd Shemirânî, con i suoi due figli Bijân e Keyvân così come con Behnam Samâni. Va notato come Tricomi sia un finissimo ed apprezzato polistrumentista, capace di passare con disinvoltura e maestria tra strumenti e tradizioni diverse.
Nel tempo è iniziata una collaborazione stabile con la giovane, colta e curiosa cantante Sepideh Raissadat, formatasi sin dall'età di otto anni con i più grandi esponenti della tradizione classica (radîf) persiana. Sepideh è anche musicologa, ha inciso già diversi dischi e viene unanimemente riconosciuta come una delle migliori voci della sua generazione.
Gli strumenti
Il flauto di canna ney è uno strumento dal passato millenario: i primi resti archeologici datano al 2500 a.C. ma esso ha assunto un nuovo ruolo nell'opera poeta di lingua persiana Mevlâna Jalâl ûd-Dîn Rûmî (1207-1273) e nei repertori della confraternita dei "dervisci rotanti" (mevlevîye) che fiorì dal suo impulso". Il liuto a manico corto 'ûd è un esempio di relazioni musicali tra Oriente ed Occidente. Le prime tracce compaiono in Tajikistân: da qui lo strumento muove verso Oriente, verso la Cina (pi'pa) e il Giappone (biwa); quasi contemporaneamente si diffonde verso Occidente: in Persia viene detto barbat, gli arabi lo adottano e lo ribattezzano al-'ûd ("il legno"). Al seguito delle conquiste arabe esso risale l'Andalusia dove viene detto aliûd, raggiunge quindi la Provenza come luth e l'Italia, divenendo, nell'accezione dantesca, leüto. Il liuto a manico lungo tanbûr viene detto anche tanbûr kebir türki ed è la particolare variante ottomano turca di una famiglia strumentale, quella dei liuti a manico lungo, assai antica e diffusa in area mediorientale e centroasiatica con parenti in area indiana (tambûrâ). Nei secoli il tanbûr ottomano turco è stato lo strumento prediletto dai grandi teorici della musica tra cui il nostro principe Cantemir. Il termine zarb (di origine araba) significa "tempo, misura, battuta"; insieme a questo termine colto, nell'attuale Iran se ne impiega uno più popolare e onomatopeico, tombâk: entrambi indicano un identico tamburo "a calice"
Giovanni De Zorzi